3) In caso di melanoma diagnosticato in gravidanza cosa fare?
Qualora l’esame istologico confermi la diagnosi di melanoma, il trattamento deve essere conforme al rischio della lesione; pur con tutte le cautele e il supporto psicologico necessari e le specificità legate alla settimana di gravidanza, alla sede del melanoma e alle sue caratteristiche prognostiche, non bisogna né procrastinare il trattamento né sottotrattare la lesione. I dati di letteratura evidenziano che circa il 90% dei melanomi diagnosticati in gravidanza è comunque non metastatico ed adeguatamente trattabile, nonostante la gravidanza in corso; questo è il primo dato da condividere con la paziente. Sono riportate anche serie di pazienti con stadio più avanzato, ma se si controlla l’anno di diagnosi sono quasi tutte precedenti il 2000. Il trattamento deve essere identico a quello indicato al di fuori della condizione di gravidanza. E’ raccomandato un allargamento a 0,5 cm di margine sano per il melanoma in situ, di 1 cm per le lesioni fino a 2 mm di spessore e a 2 cm di margine per lesioni superiori ai 2 mm. L’allargamento può essere eseguito in anestesia locale, nella quasi totalità dei casi. Nelle lesioni maggiori di 0,75 mm o con presenza di ulcerazione è consigliato associare la biopsia del linfonodo sentinella. Per la linfoscintigrafia è consigliato l’uso di radiotracciante a breve emivita, come il nanocolloide tecnezio-99, che consente di esporre il feto a meno di 5mGy, dose ritenuta trascurabile per il rischio di malformazioni fetali dalla società statunitense di medicina nucleare. La sicurezza della procedura è provata dall’assenza di effetti collaterali segnalati per il feto. Nella ricerca del linfonodo sentinella va invece evitato l’uso della colorazione vitale con blu isosoulfano, per la segnalazione di reazioni allergiche anche gravi in corso di gravidanza. Nel caso non sia possibile la biopsia del linfonodo sentinella in anestesia locale e si renda necessario posporla a dopo il parto (l’anestesia generale è comunque fattibile dopo il primo trimestre, con opportune cautele), è preferibile effettuare comunque la linfoscintigrafia, soprattutto nelle lesioni del tronco e del capo-collo, perché conoscendo la via di drenaggio linfatico è più facile il monitoraggio ecografico della stessa nel corso della gravidanza, consentendo un rilievo più precoce di eventuali metastasi linfonodali. Fatta eccezione delle ecografie delle stazioni linfonodali e dell’addome - che devono essere sempre incluse nella stadiazione in corso di gravidanza, andrebbero invece evitate le indagini radiologiche, a meno che non siano ritenute indispensabili per una più accurata definizione dello stadio di malattia, a fronte di un forte dubbio o sospetto clinico. Sono consigliati controlli oncologici mensili fino al parto, allo scopo di rilevare il prima possibile qualsiasi evoluzione e anche per tranquillizzare e supportare la paziente. In caso di linfonodo sentinella positivo, la linfoadenectomia, se indicata per rischio elevato di linfonodi metastatici aggiuntivi viene dilazionata a dopo il parto. In caso di metastasi linfonodali macroscopiche, la linfoadenectomia può essere effettuata dal secondo trimestre, anche se a livello inguinale i problemi di compressione cavale aggravano il rischio di linfedema e ne consigliano il rinvio, cercando di anticipare il parto al primo momento possibile.
Dopo la 24 settimana di gravidanza, se indicato dallo stadio e dal rischio di metastasi è comunque possibile una stadiazione che non superi l’esposizione fetale di 50 mSv. In questo caso, è meglio avvalersi della consulenza, oltre che del radiologo, anche di un fisico sanitario - figura professionale presente in tutte le unità di radioterapia-medicina nucleare, che è in grado di calcolare le diverse esposizioni e rischi nonché le possibili schermature. Situazioni di malattia più grave o clinicamente metastatica, oltre che rare sono talmente specifiche ed uniche da rendere impossibile la definizione di regole generali di comportamento. Sicuramente, ogni caso va affrontato collegialmente a seconda della pericolosità della situazione, del periodo di gravidanza, delle preferenze della coppia, dell’età della paziente. L’anticipo del parto deve essere considerato solo quando ritardare il trattamento mette in pericolo la vita della madre. La quasi totalità delle gravidanze ha un esito positivo con neonati senza malformazioni, anche nei casi trattati in passato con chemio o radioterapia nell’ultimo trimestre. La maggioranza degli studi pubblicati è riferita ad un periodo precedente alla disponibilità dei nuovi farmaci a bersaglio immunologico ed a bersaglio molecolare, per i quali, data la loro teratogenicità, ne viene sconsigliato l’utilizzo in corso di gravidanza. E’ stato riportato un caso di aborto alla 19 settimana in corso di trattamento con vemurafenib (BRAF inibitore). L’ipilimumab (anti-CTLA4), passa la placenta e nelle scimmie sono stati riportati aborti, morte fetale, prematurità, e malformazioni del tratto urogenitale. Per gli anticorpi anti-PD1 ed anti-PD-L1, non ci sono dati sull’uomo, ma nei topi il loro utilizzo porta alla perdita del feto. Poiché l’asse PD-1/PD-L1 è fondamentale a livello placentare per la regolazione dei linfociti T e per la tolleranza del feto da parte della madre, è logico aspettarsi effetti sfavorevoli con il loro utilizzo in corso di gravidanza. Infine, mancano dati di letteratura sugli effetti di una interruzione volontaria della gravidanza, raramente necessaria, sulla prognosi della malattia. Nella esperienza di un oncologo italiano in un numero limitato di pazienti recidivate, l’interruzione volontaria della gravidanza non sembra aver influito sul decorso della malattia; in un caso, è stata registrata una remissione completa di lesioni epatiche e cerebrali a più di 10 anni dalla interruzione.